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Venerdì, 29 marzo, al Palazzo della Cultura di Noicattaro, si tiene la lectio magistralis di quello che è, forse, il più grande geografo italiano vivente, il prof. Franco Farinelli, attivo presso Università prestigiose, come Berkeley e la Sorbona. Modera l’editore barese Giuseppe Laterza. L’oratore dipana una prosa ricca di inferenze culturali, che procede ad ondate rigonfie, spingendo lentamente, ma inesorabilmente gli astanti verso la riva della conclusione logica e necessaria. 
Una definizione plausibile di carta geografica la descrive come uno strumento esatto che contraddice le rappresentazioni false della realtà. Quando nasce la rappresentazione cartografica? Ai tempi della biblioteca di Alessandria, nel II sec. d. C., con Claudio Tolomeo, che inventò la maniera di trasformare la sfera terreste in una serie di mappe. Leggendo i suoi scritti, egli appare perfettamente consapevole della sfericità della terra, però proprio per questo, egli dice, se se ne vuole ricavare un modello, ciò non deve accadere tramite un’altra sfera. In tal maniera, ci si condannerebbe a legare la fedeltà del modello alle dimensioni della sfera. E occorrerebbe costruire una sfera così grande o da girarci continuamente intorno, o da far continuamente girare su se stessa: inservibile. Da qui, da questa teorizzazione razionale, discenderanno, in senso lato, Borges, la cibernetica, Eco, l’epistemologia moderna. Tolomeo insegna a trasformare la sfera terrestre in una serie di mappe, così, “comodamente seduti, a colpo d’occhio”, sarà possibile avere tutto ciò che occorre. 
La geografia di Tolomeo ispirò anche a Brunelleschi la sua invenzione della prospettiva lineare, il modo moderno di rappresentare lo spazio, e il progetto della modernità è stato proprio quello di trasformare la terra in un unico, gigantesco spazio, collegato ed interconnesso. 
I paesaggi hanno un carattere, hanno qualcosa di umano. Si pensi alla curiosa espressione “ridenti cittadine”, un unicum della lingua italiana, o alle Cronache di Norimberga di Hartmann Schedel del 1483, opera in latino della storia del mondo, riccamente illustrata, o alla galleria dei ritratti in Vaticano, dove anche gli edifici sono dotati di espressione. Da tutti questi esempi, traspare come ancora nel ‘500 non vi fosse una distinzione tra soggetto ed oggetto. È Cartesio nel XVII sec., che codifica questa distinzione. 
Ancora nel Milione di Marco Polo non si avverte questa distanza. Il viaggio del grande veneziano durò 17 anni. Egli sostava a lungo nei paesi che attraversava, tanto da apprenderne le lingue. Il suo è un “divisamento del mondo”: non solo vedere, ma anche farsi un’opinione. Anche Aristotele diceva che non si può pensare senza vedere qualcosa e, prima ancora, per Erodoto il modo migliore di conoscere è la visione autoptica.
Nel Milione le cose non hanno estensione, ma durata: gli oggetti rappresentano l’esistenza concreta del viaggiatore. È la logica dei luoghi. Marco Polo, attraverso la penna di Rustichello da Pisa, descrive un mondo fatto di luoghi.
Invece con Marx vediamo il mondo come il regno dell’equivalenza generale. Se la faccia della terra è un unico spazio, tutte le parti della terra possono scambiarsi tra loro, sono equivalenti. Con Cristoforo Colombo, la rappresentazione cartografica afferra la realtà e la trasforma, ma Colombo non coglie davvero l'essenza delle cose. Viaggia seguendo la carta dell’Oceano di Toscanelli, senza una reale consapevolezza dei luoghi, che vada oltre il modello cartografico.
La modernità, per l’appunto, si spiega solo se si rovescia il rapporto tra la mappa e la realtà. E' il momento in cui la faccia della terra diventa una mappa. Si pensi alla ferrovia, che non poggia direttamente sul terreno, ma su una massicciata, che spiana la rotondità del pianeta. La ferrovia si spiega come l’applicazione alla faccia della terra delle regole di Newton e determina la trasformazione della terra in una tavola. 
In Sterne, “ Vita e opinioni di Tristam Shandy”, si coglie come prima le strade erano curve e poi diventano diritte. Tra Sei e Settecento si impone il modello astratto della linearità. È la realtà che deve far lo sforzo di adattarsi allo schema. Ciò deriva da quanto accade, tra il 1312 e il 1327, sotto il portico dell’Ospedale degli Innocenti a Firenze: è lì che nasce lo spazio moderno. Anche lo zar Pietro chiede ai suoi architetti la Prospettiva Nevskij, rettilinea, seguendo il modello del grande Rinascimento italiano. In tedesco autostrada si dice Autobahn, ferrovia per le automobili, e il principio è sempre lo stesso. Tutta la modernità si fonda sul codice spaziale, sul rapporto tra soggetto, spazio e oggetto e il colonialismo è il veicolo con cui tale modello spaziale è stato esportato fuori d’Europa. 
Importante per la storia umana è l’estate del 1969: la vecchia Terra prendeva il suo satellite e ne faceva copia di sé. Quell’anno si “atterrava” sulla luna. Ma non è questo l’evento che cambia la storia. Sempre nel 1969, all’interno di un progetto militare, due computer cominciarono a dialogare tra loro e fu quella la vera rivoluzione, non l’uomo sulla luna. All’interno della rete, la distanza tra due punti non significa quasi più nulla. Esiste ancora la distinzione tra soggetto ed oggetto? 
No. 
Si comincia a pensare ad un insieme di macchine, con dentro un software (un pensiero). È la fusione di mente e materia, per Cartesio inconcepibile, di soggetto e oggetto. A queste macchine occorre collegare la componente umana e viene in mente il visionario regista statunitense Stanley Kubrik, col computer umanoide Hal di “2001 Odissea nello spazio”. 
Sono tante le capitali in giro per il mondo, scelte non certo per cultura o tradizione, bensì in ossequio al modello della mappa: ad esempio in Turchia Ankara, al posto di Costantinopoli. 
Oggi, ad una prospettiva lineare, occorre sostituire la logica della polarizzazione: una linea non offre scampo, invece una sfera ha due poli. Quando tutto sembra tendere verso il disumano, esiste il polo opposto: quello del ritorno dell’uomo. La crisi dello spazio, indotta dal funzionamento della rete, riconduce all’importanza dei luoghi. I luoghi sono l’opposto dello spazio: sono parti dello spazio cui si attribuisce qualità specifiche, sono ambiti irriducibili, non intercambiabili. È la visione che si sta imponendo in tutto il mondo: le rivendicazioni autonomistiche, storiche, che stanno prepotentemente tornando alla ribalta, contengono in sé questo elemento ispiratore sotterraneo. Fa eccezione oggi la cosiddetta via della seta, un modello di commercio globale, di cui tanto si parla, che si richiama invece ancora al modello lineare. 
Il paesaggio è il modo in cui noi entriamo in relazione con i luoghi. Romanticamente, il paesaggio determina in noi lo Stimmung, vibrazione, accordo. Nel famoso quadro di Friedrich, Viandante su un mare di nebbia, l’unico personaggio umano di spalle è appoggiato ad un alpenstock: è di passaggio. In quanto soggetti mobili, riconosciamo la mobilità innata nel soggetto umano. Oggi più che mai, occorre prendere coscienza di questa mobilità. 
Aristotele e Picasso hanno in comune l’idea che non possiamo pensare a nulla, se non vediamo qualcosa, ma ogni generazione vede cose diverse. Ciò che muta nelle generazioni è il rapporto col paesaggio, da cui non possiamo prendere nessuna distanza. Si appartiene ad una cultura locale: la nostra non può non essere un’appartenenza di soggetti mobili che si riconoscono in un comune paesaggio. 
In conclusione, tra gli interventi dal pubblico, rimarchevole quello del prof. Sebastiano Valerio, dell’Università di Foggia, uno dei tanti ex moreani illustri: “La prospettiva umanistica è legata ad una civiltà del dialogo: sono tante le opere scritte in forma di dialogo durante quel periodo. Oggi cosa ci può dare eticamente la riscoperta della prospettiva?”. 
Secondo Farinelli, la prospettiva significa il passaggio dalla comunità all’individuo. La visione prospettica, difatti, è operazione individuale. Oggi bisognerebbe, forse, dimenticare la prospettiva per ricostruire la comunità. Il mondo, nella contemporaneità, va assumendo forme sempre nuove, che occorre riconoscere per tempo, altrimenti si rischia di rimanerci sotto. La via della seta, il pre-moderno, l’arcaico stanno ritornando. È la tecnica veneziana di dominio dell’Adriatico: ti allei, acquisti, corrompi. Si colgono sempre più frequenti crepe nella struttura statale, ma lo stato, persino per Hobbes, ha salvato migliaia di vite. La memoria serve: senza la memoria non c’è intelligenza e senza intelligenza non c’è futuro. Persino la catena di montaggio della rivoluzione industriale nasce sotto il Portico degli Innocenti: Florenskij è il primo che fa notare che, perché il trucco prospettico riesca, occorre restar fermi. È un metodo semplicissimo ed artificialissimo di percepire, rappresentare e costruire la realtà, ma è un modello falso, appunto. Abbiamo ridotto la faccia della terra ad una mappa ed abbiamo la mappa in testa. È il principio del modello: vero è che, senza di esso non avremmo avuto tante conquiste della modernità; adesso, però, occorre tornare a riconoscerci nel paesaggio, occorre riconquistare il valore della comunità.  

Luisa Brattico, V C, MOREA, 1988-89

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