CASAMASSIMA NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE
Testimonianza
autentica e principale della partecipazione di Casamassima al secondo
conflitto mondiale è
il Monumento ai Caduti.
Visibile
ancora oggi in Piazza Aldo Moro, ha una forma cosiddetta “a cippo”.
E’ fatto di bronzo, marmo e pietra e la statua posta in altro è
l’allegoria della Vittoria, raffigurata da una donna alata con
in mano una corona di alloro e vestita in semplici abiti d’epoca.
Progettato dallo scultore Vitantonio De Bellis, il monumento fu inaugurato il 27 gennaio 1923, insieme alla Fiamma Ardente, posta al
di sotto della statua, e al Milite Ignoto (meglio noto, nella lingua
dialettale locale, come “U
soldat muert”).
Al termine del secondo conflitto mondiale, però,
dopo il restauro, il monumento fu privato del ricordo e del simbolo
del soldato immolatosi per la Patria e fu lasciata soltanto l’immagine della Vittoria.
Sempre a
seguito del restauro, furono aggiunti i nomi dei militari caduti: ai
lati i giovani casamassimesi
deceduti durante la prima guerra mondiale e ai piedi del monumento,
sulle due grandi lapidi
frontali, i nomi dei compaesani caduti, invece, durante la seconda
guerra mondiale.
Tanti i
concittadini che si sono prodigati affinché le memorie casamassimesi della guerra fossero tramandate alle nuove generazioni: fra questi Vitoronzo
Pastore.
Nato a Casamassima nel 1948, nel 1967 si arruola come volontario
nella Guardia di Finanza. Nel 1973 lavora nella casa di cura “San Pio X” di Milano. E’ in
questo luogo, a stretto contatto con la sofferenza, che sceglie
definitivamente il suo percorso di vita, prestando poi servizio dal
1975 al 2003 presso l’Istituto Neurologico “Carlo Besta” di Milano come
infermiere professionale. Qui Vitoronzo Pastore collabora anche come
paramedico a diverse ricerche scientifiche, ricevendo apprezzamenti
ed encomi. Ancora oggi il signor Pastore è un appassionato di storia e di aneddoti
legati alle guerre mondiali, come quelli raccontati in “ Storia Postale Militare I e II Guerra
Mondiale - Corrispondenze dei prigionieri di Guerra”. Il signor
Pastore è anche autore di alcune opere dedicate alla storia della
guerra. Uno dei suoi libri più noti è intitolato “Il
massacro della Divisione Acqui”.
In questa raccolta di testimonianze, vi è un intero capitolo dedicato alla storia di
Albertina Arioli e Giovanni Anghinoni, una coppia di sopravvissuti allo sterminio nazista, capitolo intitolato “Luci
nel Lager: Albertina e Giovanni”.
Albertina e Giovanni si conoscono in un campo di concentramento
nazista. I due appuntano i loro ricordi una ventina di anni dopo il loro ritorno e pensano che un
tempo così lungo possa aver quasi cancellato dalle loro menti la drammatica vicenda vissuta: di fatto, invece, i ricordi si
rivelano ancora nitidi, come se quei momenti fossero stati appena vissuti. I due insieme sono riusciti a superare l’orrore del campo di
concentramento di Dresda. Vitoronzo Pastore li conosce nel maggio 2007 a Rosignano Solvay,
in Toscana. Questa è la loro storia.
Giovanni conobbe Albertina nella primavera del 1944, quando lui e i suoi
compagni furono trasferiti in una baracca nei pressi della fabbrica Rapid Werchen. Prima di arrivare lì, Giovanni, telescriventista nel Distretto Militare di Pavia, era stato mandato nei
pressi di Xylokastro, in Grecia. Ritornato a Milano, con l’avvento del regime nazista, era stato deportato nel campo di concentramento di Dresda. La baracca era divisa da un corridoio: un
lato era riservato ai prigionieri di guerra come Giovanni, l’altro era stato assegnato a una ventina
di donne di varia età e nazioni diverse, provenienti da altri campi di lavoro. Dopo interi mesi di
prigionia, sembrò quasi naturale fraternizzare, per quanto i contatti tra uomini e donne fossero
severamente controllati dalle guardie del campo. Il comandante, accortosi
dell’avvicinamento di Giovanni e Albertina, trasferì questa nel turno di notte e i due riuscivano allora ad
incontrarsi solo al cambio del turno. L’anno dopo, precisamente la mattina del 14 febbraio, i due
innamorati, insieme ad altri amici di campo, fuggirono nell’intervallo orario della distribuzione del
rancio. Tutti salirono sul primo mezzo disponibile diretto alla stazione ferroviaria di Dresda e, giunti lì, presero il primo treno per una destinazione ignota. Invece di dirigersi verso ovest e quindi
verso le truppe americane, andarono ad est, cioè verso zone poverissime e investite dal
passaggio dei russi. Dopo varie settimane di
soste in stazioni di servizio o in sale d’aspetto di stazioni
sconosciute, un giorno il gruppo si trovò a sentire da vicino i colpi lanciati dai cannoni
tedeschi, in risposta ai razzi Katiuscha russi. Dopo tante altre peripezie, i giovani
riuscirono ad arrivare a Klatovy nella Repubblica Ceca, dove erano appena giunti i soldati americani.
Giovanni, Albertina e i loro compagni di viaggio frequentarono per un lungo periodo gli americani.
Una sera, un americano di origine francese, un certo Raymond Robillard, propose uno strano
affare. Giovanni avrebbe dovuto procurargli delle bottiglie di liquori, mentre lui gli avrebbe fatto
avere una jeep. A questo scambio, fece seguito un’ulteriore proposta: Raymond offriva il suo albergo
al gruppo italiano, ma in cambio Giovanni e Albertina dovevano svegliarlo tutte le mattine secondo i suoi orari di servizio. Il 2 giugno 1945 il soldato Raymond diede una bellissima notizia alla
coppia: il giorno dopo Giovanni e la sua compagna si sarebbero dovuti far trovare in piazza e gli automezzi degli americani li avrebbero scortati fino al confine italiano. Una volta a
Milano, i due decisero di sposarsi il 21 luglio del 1945 nella chiesa di San Pietro a Bozzolo. Dopo
qualche mese di vita pendolare, i due si stabilirono definitivamente a Milano, dove Giovanni lavorava
come impiegato alla Società Elettrica, un’azienda consociata alla Edison. Nel 1947 nacque la
loro prima figlia, Adele, e successivamente, nel 1955 nacque Giuseppe. A Milano la famiglia rimase
fino al 30 giugno del 1973, giorno in cui la Direzione della Società Elettrica avvisò
Giovanni che con la nuova Legge 336 applicata ai combattenti e con il riconoscimento di tre campagne
militari, sarebbe potuto andare in pensione. Fu in quel momento che essi decisero di stabilirsi
definitivamente a Rosignano Solvay, in Toscana.
Tra
i casamassimesi più noti che si sono occupati della storiografia del secondo conflitto mondiale vi è ancora Monsignor Sante Montanaro. Sacerdote,
scrittore e cultore della storia di Casamassima, a lui è dedicata una Fondazione che si occupa
di tramandare i suoi scritti e le sue opere. La più nota, “Casamassima
nella storia dei tempi”, è una raccolta di cinque volumi, che ripercorrono la storia del paese sin dalle origini. In
particolare, è nel sesto capitolo del terzo volume della serie che Don Sante narra le vicende legate alla Seconda
Guerra mondiale, dal suo scoppio nel 1939 sino al 1945.
Nato a Casamassima, Monsignor Montanaro (8 settembre 1916 - 8 febbraio 2011) ha vissuto parte della sua vita a Roma, svolgendo la professione di insegnante
presso il Liceo Classico “San Gabriele”, prima di essere chiamato al Servizio della Santa Sede. Fu
dapprima Segretario della Pontificia Accademia Artistica dei Virtuosi al Pantheon, poi venne
designato come esperto delle Comunicazioni Sociali nell’apposita Delegazione Regionale della
Conferenza Episcopale del Lazio. Dal 1948 al 1963 fu Assistente Ecclesiastico Nazionale dell’ACAI
(Associazione Cristiana degli Artigiani Italiani). Autore di numerosi articoli e di varie
pubblicazioni, è stato membro effettivo della Pontificia Accademia Artistica dei Virtuosi al Pantheon,
Presidente Onorario dell’Archeo Club d’Italia – Sezione di Casamassima, Socio d’onore del Nobile
Collegio Chimico – Farmaceutico di Roma e del Rotary Club – Terra dei Peuceti di Casamassima (Bari).
Stando dunque alla ricostruzione storica di Don Sante, a Casamassima
la dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940 fu accolta con rassegnazione, ma con il
passare dei mesi giungevano sempre di più notizie sui tanti soldati dispersi, feriti,
prigionieri o morti in Africa. Ci si limitava ad ascoltare le trasmissioni di “Radio
Londra”, da cui era possibile apprendere le novità sull’andamento della guerra nascoste da nazisti e fascisti.
In paese si combatteva contro la fame a causa del lungo periodo di carestia:
neanche con la “tessera annonaria”, che serviva per l'acquisto limitato di generi alimentari razionati,
si riusciva più a sfamare la popolazione locale.
L’assenza dei soldati casamassimesi, che erano stati chiamati in
Africa o in Europa, non incideva, però, sul piano demografico, dal momento che nel piccolo paese si
era riversata una massa di sfollati provenienti da Bari. Quasi ogni ora, nel settembre del 1943,
i mezzi tedeschi presidiavano e facevano la ronda all’interno delle strade del piccolo paese. Alla
paura dei casamassimesi nei confronti dei tedeschi, si contrapponeva l’apertura del loro animo verso i soldati alleati che, durante le loro soste in paese, distribuivano
alla gente viveri, cioccolato e sigarette.
E’ proprio in questo periodo che per i soldati feriti o deceduti in
guerra vennero
installati nel territorio l’ospedale militare di Padula e il cimitero militare polacco.
L’ospedale militare di Padula fu organizzato e gestito dagli
anglo-americani nel Largo di Padula, nello stesso luogo in cui, circa sette secoli prima, c’era stata la
restituzione del feudo da parte dell’imperatore Corrado IV di Svevia a Roberto di Casamassima.
L’ospedale fu allestito all’interno dell’edificio scolastico “Guglielmo
Marconi” e in altri quattro capannoni complementari. Di giorno, gli ufficiali medici prestavano il servizio in ospedale e
di notte alloggiavano presso le famiglie benestanti di Casamassima, come ad esempio nei palazzi
degli Amenduni o dei Ciacci di Corso Garibaldi. Numerosi soldati polacchi si unirono in matrimonio con le giovani casamassimesi.
Alla fine della guerra, i soldati poterono, così, acquisire la cittadinanza italiana e sistemarsi in
Italia per lavoro. Tanti altri militari polacchi, però, ebbero una sorte più infausta e non riuscirono a
sopravvivere a causa delle ferite di guerra, nonostante i tentativi di cura. Per questo gli americani ottennero un terreno sulla via di Bari, dove fu edificato il “Cimitero
Militare Polacco”, oggi ubicato a circa quattro chilometri a Nord di Casamassima.
All’ingresso si staglia la scritta in bronzo: “Bonum
certamen certavi fidem conservavi ideo reposita est mihi corona iustitiae”, che significa: “Ho
combattuto una battaglia gloriosa, ho conservato l’ideale, perciò mi è stata data la corona della giustizia".
Entrando, vi è un viale principale, al cui centro sorge un monumento
dedicato alla Madonna di Vilco, venerata nella nazione polacca. Nel cimitero, oggi, si possono noverare
383 tombe: il più giovane deceduto aveva appena 16 anni e il più anziano ne aveva 78. Vi sono
sepolte anche delle donne, ausiliarie e volontarie durante la guerra. Fra le tombe ce ne sono
otto ortodosse, con il simbolo della doppia croce, quattro ebraiche con la stella a sei punte, una
musulmana con il simbolo della luna che abbraccia una stella. Tutte le altre sono segnate con croci
cristiane in pietra.
Nel 1989 fu realizzato il primo gemellaggio tra le città di Strezgom
e Casamassima, preparato da una visita della delegazione casamassimese in Polonia e da una della delegazione di Strzegom, guidata dal sindaco Josef Gabica, al municipio di Casamassima. Nel
febbraio 1993 c’è stato un secondo gemellaggio tra il Rotary Club Casamassima e il Rotary
Warsawa. Varsavia e Casamassima, di fatto, sono legate da un sottilissimo filo conduttore. A Varsavia
esiste, infatti, un cimitero italiano con le salme di 200 caduti. Dalla Polonia alla Puglia corre, poi, invisibile il 17° Meridiano Est che tocca Poznan e Breslavia e attraversa per intero il Cimitero polacco
del paese. Da non dimenticare, infine, il dono portato da un gruppo di pellegrini casamassimesi a
Papa Giovanni Paolo II: un grande vaso di vetro contenente della terra del Cimitero Militare
Polacco di Casamassima, simbolo della vicinanza della cittadina alla terra dell’Est Europa e al
Papa santo, originario della nazione polacca.
Commenti
Posta un commento