POLIGNANO E LA SECONDA GUERRA MONDIALE

Quando la salvezza venne dal cielo...

A noi adolescenti del secondo millennio la seconda guerra mondiale sembra un evento storico lontano dalla nostra realtà quotidiana. Non è immediato per noi pensare alle città  distrutte dai bombardamenti, alla vita degli italiani in quel periodo, alla scarsità, se non addirittura alla mancanza totale di cibo, o ai rifugi antiaerei. E' vero anche, però, che ci sono date, ricorrenze nazionali e documenti che ci catapultano indietro nel tempo, commemorando le atrocità di quei tempi. Storie, racconti, spezzoni di vita sul fronte, storie di tortura, di morte vissute dai nostri avi, nonni e bisnonni.  Studiando B. Brecht e il suo teatro civile, noi, alunni di 2C, abbiamo voluto raccogliere testimonianze da chi quella guerra l'ha vissuta, rendendoci più consapevoli delle conseguenze sociali, economiche, culturali che le guerre comportano. Questo articolo si concentrerà principalmente su testimonianze di polignanesi, acquisite tramite pubblicazioni, libri o interviste.

























BENEDETTI VITO GIUSEPPE, REGIA MARINA
(testimonianza diretta, ricavata dal libro "Uomini e stellette")







Parto in pieno conflitto il 9 novembre 1941. Non vi sono accadimenti di grande importanza, fino all'armistizio. 

Partecipanti al corso RTF, Benedetti Vito Giuseppe è il terzo della quarta fila dal basso

Approdata la mia nave al Pireo come da ordine, essa viene requisita. Il nostro comandante consegna l'unità solo dopo aver ricevuto conferma scritta dell'immediato rimpatrio dell'equipaggio.

 Nave Francesco Crispi su cui era imbarcato Benedetti

Questo, però, non accade e, dopo alcune settimane trascorse da semi-prigionieri, veniamo fatti salire su vagoni-container sporchi, maleodoranti e scarsamente arieggiati. "Buon ritorno in patria!", ci augurano i nostri ex alleati con un sorriso beffardo.
Nel nostro lungo peregrinare verso nord non ci sentiamo più umani, ma bensì ci sembra di essere trattati da bestie. Il nostro lungo "tour" non si conclude in Italia, ma a Berlino, dove siamo accolti da due file di soldati-bambini armati con mitra. Ci viene requisito tutto e siamo mandati a lavorare nelle miniere. Durante la nostra permanenza, numerosi sono gli incidenti che si verificano, di cui molti anche mortali. Ed ecco che, dopo qualche mese, si cambia lavoro, e si passa dalla padella alla brace. La nuova destinazione è uno stabilimento siderurgico. Siamo costretti a sopportare calore insopportabile, aria irrespirabile, turni massacranti, alimentazione al limite della sopravvivenza e i continui bombardamenti sono l'unica cosa  che rende la nostra esistenza meno monotona.

 Benedetti Vito Giuseppe in prigionia, secondo da destra, seduto

Le truppe alleate iniziano l'invasione della Germania e quando i tedeschi si rendono conto che la situazione è divenuta insostenibile, si danno alla fuga. È' la fine di un incubo durato quasi due anni. Il rimpatrio non è immediato e nel caos generale che segue, ognuno cerca il modo ed il necessario per sopravvivere. Durante i tre mesi successivi, le giornate trascorrono lente e monotone. Arriva il giorno della partenza e una sgangherata tradotta ci conduce a Genova, dove alloggia nelle scuderie. Dopo una settimana d'incanto trascorsa su comodi giacigli di paglia imputridita, nutriti a base di gallette, un convoglio di ogni età, ceto e condizione ci porta a Falconara. Per non sgualcire gli abiti freschi di stiratura, preferiamo viaggiare in piedi. Io ed altri cinque o sei decidiamo di salire sul tetto di un vagone. Ma anche ai piani alti la situazione è precaria e trascorriamo il resto del viaggio comodamente supini per non sbattere contro le volte delle gallerie, a dibatterci tra i nauseanti fumi di carbone.
E' l'11 settembre 1945 quando finalmente giungo a Polignano. Sono passati quattro anni dalla mia partenza e la mia sorellina che ora ha cinque anni, quando mi vede apparire sull'uscio di casa, scappa spaventata tra le braccia di mia madre.

Serie di medaglie di Benedetti

INTINI ANNA E PERSIC IVAN, PARTIGIANI
(testimonianza di Anna e dei figli Luciana e Claudio, da "Uomini e stellette")


Fino all'età di 16 anni, la mia vita scorre senza particolari sussulti, più o meno come quella di tutte le ragazze della mia età che vivono in un piccolo centro di provincia. La guerra comporta sacrifici e ristrettezze di ogni tipo, ma ciò che ne risente di più è la spensieratezza tipica dell'età. Per i primi tre anni, il paese è sfiorato soltanto da taluni aspetti marginali del conflitto. C'è via vai di soldati polignanesi dal fronte, ronzii di aerei che attraversano il cielo, schianti di bombardamenti nei centri vicini, ma le cose cambiano radicalmente dopo l'8 settembre 1943.
A presidiare il paese giunge un distaccamento di truppe inglesi e Via Pompeo Sarnelli viene ora percorsa a tutte le ore da mezzi di ogni tipo. Specialmente per noi giovani l'evento è motivo di curiosità e, quando ne abbiamo la possibilità, siamo tutti a curiosare sull'uscio di casa. La mia abitazione costituisce un punto strategico di osservazione.
Dopo qualche tempo appare anche una corriera, guidata da due partigiani slavi. Un giorno, l'aiutante autista si ferma presso la fontana a ridosso di casa mia, e, mentre pulisce il parabrezza, mi sussurra che, se mai avessi avuto bisogno di un passaggio fino a Bari, sarebbe stato lieto di offrirmelo. Rotto il ghiaccio, ogni volta che passa mi saluta ed io sono sull'uscio ad attendere. Una domenica, oltre al solito rituale, mi lancia dal finestrino un mazzolino di margherite. La mia espressione mentre lo raccolgo è tanto eloquente che la sera stessa si presenta da mio padre per chiedergli la mia mano. La richiesta lascia tutti di stucco. I miei accettano subito, io dopo aver titubato un tantino.

Anna e Ivan al centro il giorno del loro matrimonio

Una mattina un suo amico mi consegna una lettera, in cui Ivan mi dice che è costretto a partire, ma promette di restarmi fedele, mi dichiara il suo amore e mi chiede di aspettarlo. Nonostante le rassicurazioni e le bellissime parole, mille pensieri mi affollano la mente, ma uno mi assilla in maniera particolare: cosa nasconde questa partenza così improvvisa?
Rimasta sola,  a distanza di due mesi, Ivan si presenta a casa mia per tener fede alla sua promessa. Dopo soltanto una settimana divento la signora Persic. Alla festosa cerimonia partecipa anche il console jugoslavo. In seguito, apprendo che la sua presenza è dovuta al fatto che, quando il comandante di Ivan era venuto a conoscenza che il suo trasferimento a Lissa era stato determinato solo dall'aver contratto fidanzamento con una cittadina straniera minorenne, gli aveva consigliato di mettersi a rapporto col comandante generale. Il maresciallo Tito (Josip Broz) aveva sentenziato bonario: "L'amore  non ha confini politici e geografici, va e sposa la tua bella italiana".
Quaranta giorni circa, dopo il matrimonio, si presenta il console jugoslavo, il quale mi propone di arruolarmi in una delle loro brigate. La richiesta mi coglie di sorpresa, ma ormai alle sorprese sono abituata.


Documento da soldato di Anna Intini

La nave che deve condurci a Lissa è bloccata tre volte, al quarto tentativo noi donne siamo obbligate a rimanere a bordo, in attesa di destinazione. La mia disperazione è grande. Una notte, salita in coperta, sono avvicinata dal capitano della nave che incuriosito, mi domanda il motivo della mia presenza sul ponte, anziché in cuccetta. Compresa la mia condizione, il mattino seguente, si adopera duramente per rintracciare il soldato Persic. Quando Ivan scopre della mia presenza, pensa a uno scherzo, ma poi si precipita al porto. Esauriti i brevi momenti di gioia, prende a rimproverarmi, con tono affettuoso, ma estremamente duro: sa che a breve saremmo tutte state inviate a combattere i tedeschi sui Balcani. Chiede dunque al comandante della nave di farmi aggregare alla sua brigata, ma questi rifiuta la proposta e dice che, se non fossi subito risalita a bordo, sarei stata accusata di diserzione. Turbato dalla sua risposta, Ivan lo minaccia dicendogli che, se non avesse accettato la nostra richiesta, avremmo entrambi chiesto il congedo immediato: il comandante è costretto ad accettare. Ivan, infatti, era l'unico in grado di riparare gli automezzi e gli aerei e la sua assenza avrebbe bloccato la funzionalità dall'aeroporto. Saprò, in seguito, che la maggior parte delle mie compagne di viaggio avrebbero trovato la morte combattendo sul fronte ai confini con l'Ungheria.
Svolgo il mio servizio in un campo di prigionia in cui sono rinchiusi circa 250 soldati italiani. Mi viene presto comunicato che fra i prigionieri c'è un mio concittadino e, seppure con molta diffidenza, mi reco nel settore indicatomi. Osservo l'uomo ad una certa distanza e ho la vaga impressione di conoscerlo. Ci separano ormai pochi metri e l'uomo dice: “Nannì, u tù comm t'acchij que?”. Anna, e tu come ti trovi qui?  Ascoltare qualcuno parlare nel dialetto del mio paese, a tanti chilometri di distanza e in una situazione così particolare, mi mette i brividi. Non riesco ancora a dare un nome a quel giovane dal viso scarnito e dagli occhi infossati, ma dallo sguardo ancora vivido e fiero. I suoi lineamenti, seppure alterati, conservano l'antica e delicata raffinatezza. È terribilmente magro e la divisa è diventata talmente grande che, se non fosse trattenuta da una "cinta", gli scivolerebbe di dosso. Mentre soffoco a stento il senso di pietà e sofferenza, mi dice: “Sono Giuseppe”. La rivelazione mi lascia allibita e fisso incredula la sua metamorfosi: abitava a due isolati da casa mia. Quando mi appresto a lasciarlo, con umile contegno mi chiede se posso procurargli un pezzo di pane. Vado a fargli visita con cadenza quasi giornaliera ed ogni volta gli porto qualcosa da mangiare: rivedermi gli solleva lo spirito e gli da la forza e il coraggio di andare avanti. Dopo circa un mese, per Giuseppe e tutti i suoi compagni, arriva l'ordine di evacuazione. Ci lasciamo con la speranza di rivederci presto a Polignano.
La mia permanenza a Lissa è piuttosto tranquilla e, dopo circa un anno, arriva il trasferimento a Spalato dove Ivan è costantemente impegnato in pattugliamenti, perlustrazioni e rastrellamenti nell'entroterra ed io sono aggregata al nucleo autieri, incaricato dei rifornimenti dei reparti impegnati contro i cetnici che appoggiano gli occupanti nazisti ormai in ritirata.
Più volte mi capita di partecipare a conflitti a fuoco contro i tedeschi. Ricordo in particolare un episodio: caduti in un imboscata, io ed il mio gruppo rimanemmo una notte intera inchiodati dietro un costone di roccia, bersagliato dalle mitragliatrici nemiche. Molti furono i miei compagni che caddero quella notte. Solo allora mi resi contro della tragica esperienza che, forse per incoscienza, avevo scelto di vivere:  a poco più di 18 anni mi ritrovavo con le armi in pugno per amore, coinvolta in una guerra in cui morire era più facile che vivere. Ma della mia decisione non mi sono mai pentita.
Un giorno io ed Ivan, trovandoci in una zona piena di operazioni, accerchiammo un intero reparto di SS (Schutzstaffen). Era la prima volta che guardavo in faccio un SS: forse quelli erano gli stessi che qualche giorno prima avevano infierito su un nostro compagno caduto prigioniero che, legato ad un albero, venne prima dilaniato da alcuni cani pastore, ed, infine, fucilato.

Spilla presa da Anna ad un soldato tedesco

Protagonista della permanenza a Spalato è anche un cane randagio accudito da Ivan: quello gli si affeziona così tanto da seguirlo sempre e ovunque. Durante un trasporto di rifornimenti, il cane si mette improvvisamente ad ululare. Ivan, che non sa spiegarsene il motivo, alzato lo sguardo al cielo, intravede alcuni puntini neri in avvicinamento. Bloccato l'automezzo, si allontana quanto basta per non saltare in aria: il camion è colpito in pieno da una bomba. In un'altra occasione, mentre si trovava in perlustrazione nei boschi, vede il cane puntare su un cespuglio digrignando i denti e, avvicinatosi cautamente insieme ad alcuni compagni, vi trova nascosti due soldati tedeschi. Fatti prigionieri, gli viene ordinato di ucciderli all'istante. Al suo netto rifiuto, due partigiane si fanno avanti ed, imperterrite, scaricano il loro mitra sui due sventurati. “Chi uccide donne e bambini non merita pietà”. Ma è davvero giusto? In fin dei conti sono soldati come noi, e, prima di tutto sono anch'essi uomini. Meritano davvero di pagare questa punizione per crimini che forse non hanno neanche commesso?











Carta d'identità slovena di Anna Intini

Avuta la certezza di essere rimasta incinta, chiediamo entrambi il congedo e ci mettiamo in viaggio alla volta di Bovec, paese di origine di mio marito, posto in Slovenia, poco lontano dal confine con l'Italia. Attraversando quei luoghi e oltrepassando quelle montagne meravigliose, ho modo di toccare con mano le brutture e gli obbrobri della guerra. Lo spettacolo che si presenta ai nostri occhi è quanto di più orribile e raccapricciante si possa immaginare: case e villaggi distrutti, decine, centinaia di cadaveri in avanzato stato di decomposizione.. La nostra preoccupazione maggiore, però, viene dalla paura di eventuali attacchi nemici, perché la guerra non è ancora finita. Giunti a Caporetto, un camionista si offre di accompagnarci fino a Bovec. Tutta la gioia accumulata mano a mano che la distanza dalla meta diminuiva, svanisce di colpo alla vista del villaggio, completamente distrutto e disabitato.


Ecco, però, che ci viene incontro una piccola figura nera. Ivan, appena la scorge, allunga il passo e un abbraccio pieno di sentimenti unisce le due figure. Quando li raggiungo, hanno entrambi gli occhi rossi e il viso velato di lacrime.
“Anna, ti presento mia nonna. Nonna, questa è mia moglie”. Sono stanchissima, distrutta, ma non impreco, né mi lamento: in fondo, sono stata io a decidere della mia vita. Il ritorno in Italia avviene soltanto nel 1951.

Famiglia Persic-Intini, 40 anni fa: Anna ed Ivan al centro; da sinistra, Romeo, Claudio, Roberto, Daniele, Luciana

Dopo un disagevole soggiorno nel centro profughi di Termini Imerese (PA), io ed Ivan decidiamo di stabilirci definitivamente a Polignano.


PEDOTE VITO, AVIERE
(testimonianza diretta, da "Uomini e stellette", + intervista alla figlia Isabella, raccolta dalla nipote Francesca De Mola)
























Lavoro con la qualifica di magazziniere presso Mazara del Vallo (TP), dove rimango fino al 10 luglio del 43, quando sbarcano gli alleati.

Pedote prima di partire per la guerra al centro; da sinistra, Giannoccaro Paolo, Giannoccaro Giuseppe, Torres L Lorenzo, il sign. Chiarella.

Vengo fatto prigioniero assieme a tutti i miei compagni e sono inviato in Algeria, nei pressi di Orano, dove sono allestiti 14 campi di concentramento. Durante questa permanenza partecipo alla costruzione di un ospedale nel deserto: guadagno 17 centesimi al giorno. Arrivato l'8 settembre, dovrebbe cambiare anche la posizione dei prigionieri, ma, in attesa, veniamo trattenuti in una sorta di steccato. L'ufficiale responsabile, un americano di origine tedesca, trova il modo di vendicarsi sia come americano, che come tedesco, lasciandoci senza acqua e senza cibo.

Pedote. secondo da sinistra, con i suoi amici marinai.

Incontro tre polignanesi, due provenienti dal quartiere di campagna Chiesa Nuova, e Domenico Di Palma, "Catallucce". Per sopperire alla mancanza di alimenti e non consumare energie, ci sdraiamo per terra e ci copriamo la testa con una striscia di tela. Dopo tre giorni, giunge un nuovo reparto di americani. Il loro comandante, dopo essersi scusato dell'inumano trattamento, il giorno dopo ci divide tra fascisti e non fascisti. Vengono formate compagnie di 200 soldati e i pochi fascisti irriducibili continuano ad essere trattati da prigionieri di guerra, mentre noialtri veniamo condotti ad Orano. Il 26 dicembre ci viene fornita divisa americana e siamo avviati al lavoro nel porto. Si lavora 12 h al giorno, con turni anche notturni: in cambio, oltre a cibo in abbondanza, sigarette e condizioni di vita un tantino più accettabili, riceviamo un salario giornaliero di 80 centesimi di dollaro. Nel luglio del 44 si sparge la voce che si intende trasferire i prigionieri negli USA.
Il 23 luglio la compagnia parte per gli USA ma, arrivati a Gibilterra, i canti e i balli si interrompono perché ci è ormai chiaro che la rotta non è l'America. Sbarchiamo a Liverpool e siamo presto trasferiti a Gloucester, una cittadina del centro-sud dell'Inghilterra. Questa volta il lavoro è meno faticoso, al coperto, e in compagnia di graziose ragazze, incaricate di ripristinare le divise degli alleati. Qui le nostre condizioni di vita migliorano drasticamente: tra cibo più abbondante, alloggi confortevoli, solo 8 h lavorative, riposo domenicale, libera uscita e la possibilità di frequentare locali pubblici; inoltre, il salario, è di 16 scellini al giorni (27 dollari al mese)
Il 7 aprile del 45 arriva l'ordine della partenza, nuova destinazione Southampton, dove ci viene ordinato di prendere confidenza con la maschera antigas. Si pensa ad un intervento in prima linea. Lo stesso giorno sbarchiamo a Le Havre, in Francia. Il trasferimento continua fino a Kessel, nel cuore della Germania. 


Le condizioni di vita peggiorano in maniera assai drastica. Il lavoro, duro e faticoso, consiste nel caricare e scaricare pesantissimi fusti di benzina e lubricanti diretti in prima linea. I venti giorni trascorsi in Germania sono stati i più duri di tutta la prigionia. 
















            
      Foto dalla prigionia in Germania 

Nell'estate del 45 torno in Italia, dove lavoro a Mungivacca, ancora sotto le armi. Nel 46 arriva l’atteso congedo. In quattro anni con la divisa non ho mai usufruito di un solo giorno di licenza.

COLAMUSSI GIUSEPPE, REGIA MARINA
(testimonianza della sorella Lenuccia, da "Uomini e Stellette")


Parte militare nel '38 ed essendo dotato di possente struttura fisica, viene arruolato nel Battaglione S. Marco. La nave su cui è imbarcato parte per una spedizione nell'Estremo Oriente, che si conclude in terra cinese.
Emblematico è l'episodio della sua partenza. Giuseppe prega i famigliari di farsi trovare alla “stazione”, così da poterlo salutare. Al momento di salpare, nonostante la lunga attesa, quello non riesce a vederli. La nave toglie gli ormeggi, ma Giuseppe non vuole rassegnarsi ed, incredulo, scruta la banchina, sperando fino all'ultimo di scorgere volti conosciuti, ma l'attesa è vana. I suoi familiari, nel frattempo, trascorrono l'intera giornata alla stazione. Ogni treno che arriva da Brindisi pensano sia quello buono ma, invece, ogni volta devono ricredersi. Ormai, a notte inoltrata, decidono di rincasare. La delusione è tanta e cercano di rincuorarsi, immaginando che la partenza sia stata cancellata. Nulla, però, avrebbe potuto alleviare il dolore che proveranno in seguito. Arriva la prima lettera di Giuseppe, in cui il giovane rimprovera i familiari della loro assenza. Questi, risentiti, gli rispondono che è stato lui, passando da Polignano, a non affacciarsi dal finestrino per salutarli. L'equivoco verrà chiarito nella lettera successiva: Giuseppe intendeva la stazione marittima, e non quella ferroviaria.


Continuano ad arrivare lettere piene di entusiasmo che, scoppiata la guerra, cessano improvvisamente. Dopo molti mesi, una comunicazione del Ministro della Guerra ci avvisa che l'intero equipaggio della nave risulta prigioniero degli inglesi. Nel ‘54, ancora prima che giunga la notizia ufficiale, riceviamo la notizia da due suoi compagni pugliesi, sopravvissuti al campo di prigionia: Giuseppe è morto a causa degli stenti e dei continui pestaggi a cui erano sottoposti. 
Prima di andare via, ci consegnano un suo cappotto e il suo portafoglio.


GLI ANELLI RITROVATI
GAETANO SACCO, TENENTE COLONNELLO DEL REGIO ESERCITO
(testimonianza della nipote Cecilia, estratta dall’articolo del 4 novembre 2018 di G. Flavio Campanella, sul sito di "La Gazzetta del Mezzogiorno")


A Bari, Giuseppe Sacco indaga incessantemente da anni per trovare indizi che riconducano ai resti del padre, Gaetano Sacco. Quello, un tenente colonnello della Divisione Torino dell'Esercito italiano, fu dichiarato disperso il 24 dicembre del ‘42 nella famigerata "valle della morte", la conca di Arbuzovka (città russa vicina al confine con l'Ucraina) dove, durante la Seconda guerra mondiale, italiani e tedeschi, ancora alleati, furono assediati dall'Armata sovietica. Qui furono rinvenuti numerosi proiettili Katyusha, che, secondo i superstiti, uccisero molti.


Gli uomini erano costretti, durante il glaciale inverno russo (con temperature anche sotto i -40°), a dormire sulla neve, con la testa sotto le automobili e i piedi avvolti in giacche. Giuseppe non può stabilire se il padre sia morto già in quel periodo oppure se sia stato fatto prima prigioniero. I resti si troveranno solo in seguito, nel 2006, in corrispondenza della prima linea, a sud-ovest del villaggio, in fosse comuni dove giacevano moltissimi soldati morti.
Poi, nella primavera del 2017, un russo di nome Ivan e il padre Aleksander (collaboratore del Governo russo e del Commissariato Generale Onoranze Caduti in Guerra del Ministro della Difesa) segnalano a due esperti di ricerche sui caduti italiani nella campagna in Russia il ritrovamento di due anelli in zone di transito delle truppe italiane durante la ritirata del ‘42. Unici indizi sono lo stemma di famiglia, i nomi dei due coniugi, Gaetano e Cecilia, e la data del loro matrimonio.
La svolta avviene lo scorso anno. Giovanni Di Girolamo, uno dei due esperti coinvolti, rivolta le banche-dati del Ministero della Difesa e dell'Archivio di Stato, fino ad arrivare all'Ufficio anagrafe del Comune di Buccino, in provincia di Salerno, dove si ha la conferma della nascita, l'1 gennaio 1894, di Gaetano Sacco di Giuseppe, coniugato con Cecilia Mininni dal 22 luglio 1926; il figlio Giuseppe contatta Pietro Pipoli, un monopolitano, presidente della sezione locale dell'Associazione Nazionale Combattenti e Reduci, il quale gli dà informazioni preziose. Quando, però, la ricostruzione è completata (nel dicembre scorso), è la nipote Cecilia, barese residente al quartiere Murat nel palazzo di famiglia, ad avere la notizia tanto attesa, perché il padre Giuseppe è deceduto novantenne due mesi prima. 


“Le lascio immaginare la felicità”, racconta. “Anche se, purtroppo, mio padre ha perso questo momento emozionante, dopo aver passato una vita a cercare tracce di mio nonno”. 
Questa estate Edoardo Chiappafreddo, l'altro esperto, e Di Girolamo hanno visitato Arbuzovska e sono riusciti a portare a casa gli anelli. La consegna è avvenuta con una cerimonia solenne, concordata con il generale Rocco Viglietta e il colonnello Giacinto Serio dell'AN.ArtI. (Associazione Nazionale Artiglieri d'Italia).
Ringrazio tutti per quello che hanno fatto”, continua Cecilia. “Ho anche mandato una lettera, in cui esprimo i sentimenti più profondi di gratitudine, al presidente dell'Unirr di Roma Gianluigi Iannicelli: il ritrovamento ha ricucito una ferita per la nostra famiglia”.
Gentile signora,” si legge nella risposta ufficiale di Iannicelli, “ho seguito passo passo tutta la vicenda. Personalmente sono maggiormente coinvolto per aver vissuto un evento quasi analogo al suo: porto al dito con fierezza la fede di mio padre, Capitano Pilota Giorgio Iannicelli, Medaglia d'oro al valor militare, caduto in combattimento aereo nel cielo di Stalin nel dicembre 1941, recuperata fortunosamente dalle nostre truppe e consegnata poi a mia madre”. Nella campagna italiana di Russia (agosto 1941 - 20 gennaio 1943), richiesta espressamente da Adolf Hitler, i morti e dispersi furono circa 77mila (40 mila feriti e congelati) su un contingente di 300mila uomini. Solo nella valle di Arbuzovka, in cui furono dispiegati 25.000 soldati italiani (più 1.500 tedeschi), morti, feriti e prigionieri furono oltre 20.000. 


GLORIA CHIANTERA,

FRANCESCA DEMOLA, II C

Commenti

  1. Molto interessante! Non sapevo che donne polignanesi avessero preso parte alla guerra.

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    1. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

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    2. Ebbene, pare sia proprio così.😊 Le due ragazze che hanno effettuato le ricerche ed il reportage sono per consuetudine attente ed accurate. 😊

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    3. La ringrazio per il suo commento

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